5 ago 2010

La mia posizione sulla questione Dio.

Approfitto della risposta che ho dato a un utente incontrato su un blog filosofico, per esprimere la mia posizione su Dio (o almeno su alcuni aspetti della questione). Copioincollo il pensiero di quell'utente, sul quale ho riflettuto un po' (mai abbastanza) e a cui ho voluto rispondere:

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"Il mio cammino è stato opposto perchè ebbi una educazione religiosa; il mio dissociarmi dalla fede è avvenuto come fatto evolutivo di un ragionare continuo; per cui ora credo in Dio perchè penso che sia la causa prima di un effetto che percepisco con i miei sensi.
Certamente non ho la fotografia del momento dell' *origine* di tutto ciò che ci circonda, ne dell' Autore di questo, ma la mia logica si rifiuta di accettare che il caso sia l' artefice di *tutta questa meraviglia*, che manifesta una raffinatissima intelligenza."

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Questo è il suo pensiero. Per rispondere e rendere la cosa più agile, divido il suo intervento in 3 punti:

1) “Il mio cammino è stato opposto perchè ebbi una educazione religiosa; il mio dissociarmi dalla fede è avvenuto come fatto evolutivo di un ragionare continuo”...

Benissimo, la strada è quella giusta. Anch'io, dopo dieci anni di scoutismo cattolico, ho intrapreso senza rancore la strada della filosofia, che mi ha serenamente condotto ad una posizione ateistica.

2) … per cui ora credo in Dio perchè penso che sia la causa prima di un effetto che percepisco con i miei sensi.

Ecco il problema: la causa prima. Torniamo così alle dimostrazioni e ai postulati medievali, che tentavano la dimostrazione di Dio con supponenti ragionamenti “logici”! Non ci siamo... Ovvero: supporre la causa prima è cosa buona e giusta, ma a patto che il nostro approccio sia:

  • moralmente neutro: il Creatore non è “buono”, come credevano gli pseudo-filosofi medievali e tutti i padri della Chiesa: i concetti di “buono” e “cattivo”, rispetto alla Creazione, non hanno alcun senso: sono “Umani, troppo umani”, direbbe Nietzsche;
  • scientificamente umile, cioè probabilistico, possibilistico e non-dogmatico: pronto cioè a subire correzioni e smentite. Se anche credessi che Dio è il “big bang”, ti troveresti dinanzi a fior di teorie (valide QUANTO le altre teorie cosmogoniche) che ipotizzano il nostro universo come un “sottouniverso” di universi più grossi, potenzialmente infiniti, in un'infinita e potenzialmente ETERNA catena evolutiva (che noi, microbi nell'universo, non riusciamo neanche a supporre e immaginare). Quindi il benedetto “dito indice” che dà origine all'Universo non è assolutamente una certezza, ma solo un disegno che si trova nella Cappella Sistina. Figurati se poi è stato un signore con la barba bianca e la voce tonante a dare origine a tutto... (non sto sfottendo te, vado solo punzecchiando la “religiosità” media della popolazione mondiale, che davvero crede ancora a simili baggianate).

3) Certamente non ho la fotografia del momento dell' *origine* di tutto ciò che ci circonda, ne dell' Autore di questo, ma la mia logica si rifiuta di accettare che il caso sia l' artefice di *tutta questa meraviglia*





















Parli di "Meraviglia", bene. In Triennale mi sono laureato con una tesi sul panteista Spinoza, avversario implacabile della religione superstiziosa, ma non definibile come “ateo” in senso stretto. Nell'Etica egli dà la sua definizione di Dio e di “amore” divino (qualcosa di vicino alla meraviglia di cui parli). Questo sentimento di “lettura tra le righe” del Creato credo di averlo ben espresso in un mio breve elaborato sull'argomento. Ti riporto la parte saliente, dando voce a Russell e Einstein a proposito di questo sentimento di piacevole “constatazione” del Tutto, cui anche noi apparteniamo:

«Benché sia vero che uno degli obiettivi della scienza è scoprire regole che permettano di associare tra loro i fatti e prevederli, questo non è il suo solo scopo. Essa cerca altresì di ridurre i nessi scoperti al minor possibile di elementi concettuali indipendenti l'uno dall'altro. È in tale sforzo di unificazione razionale del multiforme che essa incontra i maggiori successi […] Chi abbia conosciuto l'emozionante esperienza dei processi andati a buon fine in questo ambito, è mosso da profonda reverenza per la razionalità evidenziata nell'esistenza. Attraverso la conoscenza [l'uomo] consegue un'emancipazione di vasta portata dai ceppi delle speranze e dei desideri personali, e con ciò perviene a quell'atteggiamento di umiltà mentale verso la grandezza della ragione incarnata nell'esistenza». (Einstein)


Gli echi spinoziani sono incredibilmente evidenti: un amore pieno, umile e reverente è vivo sulla pelle di uno dei maggiori scienziati di sempre. Altrove Einstein parlerà anche del «piacere della bellezza della creazione artistica e delle concatenazioni logiche del pensiero». Ancora una volta troviamo accostate: la causalità (riconoscibile nel creato) ed il sentimento; la conoscenza e l'emozione.
Un altro uomo di scienza (comunemente ritenuto filosofo), Bertrand Russell, rafforza queste nostre considerazioni:

«l'amore intellettuale di Dio è una fusione di pensiero e di sentimento: credo si possa dire che consista nel vero pensiero misto alla gioia d'apprendere la verità, [gioia che] è intesa come qualcosa di superiore al piacere». (Russell)














Non si vuole qui insinuare che la via alla “beatitudine” sia appannaggio unico degli scienziati (o dei più “sensibili” tra loro). È vero però che è interessante come l'approccio scientifico – per definizione scevro da ogni emotività nella sua indagine – contempli il sentimento dell'amor dei intellectualis descritto nell'Etica di Spinoza. E quando questo non accade, ciò lo si deve al fatto che si è rimasti al livello della ragione, ovvero manca ancora quel momento conoscitivo che, pur non aggiungendo nulla alla conoscenza, consiste in un atto di intellezione il quale genera profondo coinvolgimento emotivo.

Per capire il 3° genere di conoscenza in Spinoza, credo ti vada bene qualsiasi manualistica, se già non lo conosci.
Soffermiamoci ancora su Spinoza, perchè ci serve il suo concetto di *antropomorfismo* (ma poteva andar bene anche Feuerbach per i nostri scopi): nell'Appendice alla Prima parte dell' “Etica” Spinoza nota che se Dio è l'ente massimamente perfetto (per definizione), allora è assurdo che sia subordinato a un “fine” durante la Creazione.

Il filosofo ribadisce una profonda avversione nei confronti del *pregiudizio finalistico*, criticando la concezione classica secondo cui Dio agirebbe, al pari degli uomini, secondo fini. Spinoza espone lunghe argomentazioni logiche, servendosi talvolta di parole accese, per sostenere fermamente l'inaccettabilità dell'idea di un Dio mosso da (o tendente a) finalità e obiettivi. Il finalismo, tratto tipicamente umano, viene attribuito a Dio, del quale però stentiamo a riconoscere l’essenza più autentica.

La *Creazione*, per Spinoza, non è un atto indifferente (cioè il 'creato' non avrebbe potuto essere diverso da come poi è stato fatto): la creazione è un atto necessario, massimamente compiuto, perfetto. In tal senso allora, dobbiamo dedurne - Spinoza praticamente lo afferma - che Dio dobbiamo chiamarlo “natura”.
E che c'è di più perfetto della natura? Si (ri)genera, si espande, si adatta, si avvicenda... La prova la abbiamo sotto gli occhi in ogni momento. Ma è una macchina, un meccanismo! E dietro di esso c'è solo un "orologiaio cieco"! Anzi, è più di un orologio... Un orologio sarebbe "fatto" da qualcuno: allora diremo che è piuttosto uno splendido e complesso meccanismo ad orologio, dove è vero che nulla avviene per caso (tralasciamo alcune scoperte scientifiche che sembrano reintrodurre il caso nel mondo fisico). Non per questo però significa che ci sia un fine, un motivo, un compimento, un giudizio, un percorso finalizzato.

Dovremmo essere capaci di stare di fronte all'assurdo e, anzichè elaborare soluzioni e consolazioni, dovremmo essere capaci - una volta per tutte! - di contemplare la meraviglia del nulla, anzichè lasciare che il "niente di senso" ci assorba nel burrone della disperazione. Ma questo esige una maturità dell'umanità. E noi siamo ancora sì e no degli adolescenti pieni di brufoli, pieni di complessi interiori senza senso... Stesi sul letto, ad ascoltare Marco Masini, chiedendoci perchè ci sentiamo così soli e sperduti.

Parlavamo della natura: essa certamente è qualcosa di più perfetto del Dio "antropomorfico" della tradizione, il quale avrebbe un "carattere" (irascibile, Vecchio Testamento; compassionevole - Nuovo Testamento!). Idea ridicola, palesemente fasulla e risibile a mio avviso. Anche questa una cosa umana, troppo umana...


Il problema, comunque, è quando guardiamo troppo in là. È questo il punto cruciale che mi preme sottolineare. Userò un'immagine per farmi capire:

  • io osservo, chino sul terreno, un fiore nella sua perfezione (sono ancora nella causalità stretta, non lo sto ancora “ammirando”, nè ne sto ancora deducendo nulla). Colgo dei nessi causali a livello botanico-biologico (la perfezione dello stelo; la funzionalità microscopica di ogni particella; ecc.)
  • sollevo lo sguardo orizzontalmente sul prato, ovvero ammiro la regolarità del Tutto, l'armonia e le ricorrenze implacabili e rassicuranti del Creato (provo la “beatitudo” di cui parla Spinoza). Bene. STOP!
---> Non devo alzare ANCORA più su lo sguardo, sennò finirò per vedere ciò che non c'è!

Guccini è un grande poeta, ma non mi trova d'accordo quando canta:

“E voi materialisti col vostro chiodo fisso,
che Dio è morto e l'uomo è solo in questo abisso;
la verità cercate per terra - da maiali -
tenetevi le ghiande e lasciatemi le ali”.

Beh, questo verso, splendido poeticamente, non lo condivido Lo sguardo deve restare a terra, se siamo onesti e in ricerca autentica. Se stiamo parlando (quanto più possibile) di verità e realtà. Non dobbiamo andare ad ipostatizzare nulla, nè guardare ad un “altrove” (fosse un ultramondo di stampo cattolico, platonico o chissà che...) o ad un "qualcun altro", orologiaio del mondo.

È tutto quaggiù, e ce n'è abbastanza.

Le ipotesi trascendentali sono un diletto della mente
... necessario, si badi bene!, ma pur sempre un diletto. Un espediente utile, si badi bene!, ma pur sempre un espediente.



Questo lo riconosce anche Nietzsche, il quale vorrebbe vedere negli uomini il coraggio di agire con “acutezza psicologica” l'inverso dell'abbandono cieco ed illusorio alle verità trascendentali ed irriflesse). Eppure egli stesso sa che la “fede cieca”, la speranza religiosa, la fuga dalle nostre angosce e fragilità (di esseri finiti e temporanei), sono espedienti che, complessivamente, rendono l'uomo più felice di quanto non lo faccia uno stoico atteggiamento implacabile, cinico e acuto. Aggiungo io: anche da adulti, restiamo dei poppanti bisognosi (Freud infatti nella religione ci vede poco più che una psicosi di massa, non a caso: tutti bimbi riverenti verso il Grande Padre castigatore).

Molti credenti, arrivati a questo punto, mi parleranno dell'incontrovertibile “forza” di questo spossante sentimento religioso di trasporto, amore e fascinazione verso il Tutto, che non può che far intravedere un Disegno, una Spinta, un Autore immensi e immensamente buoni...

Ma, usando ancora le parole di Nietzsche, io ipotizzo piuttosto che la nostra mente – che possiede il logos e (purtroppo e per fortuna) molte altre capacità – rincorre sempre la nostra finitezza e le nostre angosce. E costruisce sentimenti forti i quali, dopo numerose ed epocali stratificazioni culturali e accettazioni abitudinarie ed irriflesse, finisce per essere inspiegabile e trascinante.

Ma non è immediato e incontrovertibile!

Mi spiego: l'immenso amore per il tutto; la sensazione di sentirsi accuditi; il fatto di non riuscire a pensare che non c'è qualcos'ALTRO... eccetera, non dimostrano proprio nulla. Come suggerisce ancora Nietzsche:

«si formano rapide, abituali associazioni di sentimenti e di pensieri, che da ultimo, quando si susseguono con la rapidità del lampo, non vengono sentite nemmeno più come fatti complessi, bensì come unità. In questo senso si parla del sentimento morale e del sentimento religioso, quasi che siano pure unità: in verità sono fiumi con cento scaturigini e affluenti.»

In buona sostanza, il Padre del Sospetto qui lavora di fino e ci fa chiedere: sei sicuro che tu credente (e con “tu” intendo anche il “tu” dell'umanità, nel suo succedersi ed evolversi/involversi culturale e storico) non sia poi intriso, per tua stessa natura biologica, di:

  • convinzioni ereditate...
  • paure ataviche...
  • traumi esistenziali... (spiegabili tranquillamente come eredità del macro-trauma del distacco dall'utero: vedi Freud, Lacan, ecc.)
  • condizione psicologica di instabilità... (dovuta alla tua condizione di essere finito, vulnerabile, terrorizzato dalla morte: vedi Freud, ecc.)

Tutte condizioni che si CONDENSANO (rileggi il passao di Nietzsche!) in un un unico “frullato” che è il sentimento religioso (e/o morale), che a noi sembra tanto immanente ed evidente (che per alcuni è la PROVA decisiva dell'esistenza di Qualcosa di superiore).

Eh già.. Sì, proprio quello stesso “sentimento” che ha commosso SINCERAMENTE anche me stesso in alcune particolari condizioni: quand'ero di fronte a un prete iun po' n gamba.. ed ero fisicamente.. ed affascinato dalle fiamme accoglienti del fuoco scout di bivacco..

O la stessa accozzaglia di fattori (confusi, faticosamente individuabili!) che commuove mia nonna e la mia vicina di casa quando vanno in Chiesa.
Tutti fattori spiegabili... con numerose difficoltà, ma spiegabili psicoanaliticamente, sociologicamente, causalmente: scientificamente, insomma. In fondo, come nota acutamente M. Onfray:

«Dio nasce dal rigore, dalla rigidità e immobilità dei cadaveri dei membri della tribù».

E da quel momento in poi, colto dal terrore, l'uomo ha iniziato a mettere in piedi totem, invocazioni, divinità, rituali...
La forza che queste credenze ed abitudini hanno oggi, si deve alla stratificazione temporale. Tanto che adesso, dopo secoli, è chiaro che sembri a tal punto strabiliante e incontrovertibile la potenza della manifestazione divina nell'animo umano: per forza, ha avuto secoli di "palestra" utile al proprio rafforzarsi. Il mito, del resto, non morirà mai: nasce con l'uomo. Infatti credo anch'io che:



«l'ultimo Dio sparirà con l'ultimo uomo. E con lui spariranno il timore, la paura, l'angoscia, le macchine per creare divinità. Il terrore di fronte al nulla, l'incapacità di considerare la morte come un processo naturale, inevitabile, col quale è necessario venire a patti. [...] Come pure la paura per la mancanza di senso e l'assurdità, cioè l'addomesticamento del “nulla”»
(M. Onfray)

L'obiezione finale poi la conosco a memoria oramai: il credente mi dirà:

“Sì, ok. Ma continui a dare un nome scientifico e logico (“trauma infantile”; “angoscia primordiale”; ecc.) a qualcosa che non puoi spiegare con le parole miserabili di te, uomo terreno. Tu dai miseramente un nome ristretto a sensazioni e sentimenti immanenti, indescrivibili, indicibili, incontrovertibili.”

Ma come sostiene Dawkins:

quando si comincia a predicare l'esistenza di qualcosa che è indicibile, intangibile e inguardabile, allora si è fatto il passo vincente: non si può negare o dimostrare che non esiste qualcosa che tu affermi essere senza corpo, senza forma, senza luogo...

Per ora chiudo qui. Gli spunti e le obiezioni, ovviamente, sono infiniti..

Luca