2 dic 2010

Dedicato a chi salva il mondo e non sa di farlo



I giusti

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud
giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina
che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono
le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare
un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

Jorge Luis Borges

7 ott 2010

La dichiarazione d'amore di un filosofo vale doppio

Una volta hanno chiesto all'ormai anziano filosofo André Gorz quali fossero state, tirando le somme di una vita, le sue maggiori influenze. Questa la risposta:

«C'è stato Sartre, certo, c'è stato Illich. Ma le influenze più importanti non sono necessariamente quelle delle persone importanti. Dal 1947 a oggi, l'influenza più forte e costante è stata quella di "Dorine senza la quale nulla sarebbe", la mia compagna, che mi ha rivelato che non era impossibile amare, essere amato, sentire, vivere, avere fiducia in se stessi. Siamo cresciuti ed evoluti l'uno grazie all'altra, l'uno per l'altra. Senza di lei non sarei probabilmente riuscito ad accettarmi. Senza Sartre, probabilmente non avrei trovato gli strumenti per pensare e superare quel che la mia famiglia e la storia mi avevano fatto. Dacchè ho scoperto l' "Essere e il nulla" , ho avuto il sentore che quel che Sartre diceva della condizione ontologica dell'uomo corrispondesse alla mia esperienza. Fin dalla prima infanzia avevo avuto esperienza dell'angoscia, della certezza di un'esistenza senza scopo, di non corrispondere a ciò che gli altri si aspettavano da me, di non potermi far capire da loro. L'esperienza, insomma, della contingenza, dell'ingiustificabilità, della solitudine di ogni soggetto.»



A pensarci bene, una delle più belle dichiarazioni d'amore di sempre.

27 set 2010

Beata la bestia che non ha memoria...

«Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò dipende dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.


Ma egli si meravigliò anche si se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. È un miracolo: l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. Quindi l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione; non è in grado di fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per tutto come ciò che è, quindi non può essere nient’altro che sincero.
L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello, che egli può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti con i suoi simili rinnega fin troppo volentieri, per suscitare la loro invidia.
Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge che pascola o, in più familiare vicinanza, il bambino che non ha ancora nessun passato da rinnegare e che giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro. E tuttavia il suo gioco deve essere disturbato: anche troppo presto egli si risveglia dal suo oblio. Allora impara a intendere la parola “c’era”, quella parola d’ordine con cui lotta, sofferenze e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua esistenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa. [...] felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico.
Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri.»

(F.W. Nietzsche, La felicità dell'oblio)

17 set 2010

Elogio del silenzio

Anche quest'estate è caratterizzata da una miscela infernale di rumori di giorno e di notte nelle città. Non esiste requie per chi è raggiunto dai rumori più diversi. I rumori rivelano la speciale capacità di ignorare i diritti degli altri e di affermare il proprio primato con sonorità d'ogni tipo o alzando la voce nelle conversazioni e nei dibattiti. Questa nuova barbarie dimostra la frantumazione del vincolo sociale, l'incapacità d'ascolto del nostro prossimo, una tragica forma di insopportabilità del silenzio. Sta emergendo una centralità della parola che elimina gli spazi della contemplazione e della meditazione.
Il silenzio è un ornamento della parola, la nutre di significati e di sfumature. A teatro, nella musica e nella vita le pause di silenzio danno valore, forza e respiro alle parole e ai suoni. Sembra quasi si tema il silenzio, considerato rappresentazione del vuoto, della negazione della vita. Si dedica tempo infinito al cellulare per comunicare il nulla, si usa sempre più raramente la parola per un sincero dialogo con il prossimo. Eppure non esiste una vera comunicazione senza il contrappunto ed il respiro assicurati dalle pause, dal silenzio. Le parole, come la musica, necessitano di pause come di un respiro vitale.



Queste erano le parole che un lettore di Repubblica scrive ad Augias, il quale risponde:

Noi siamo un popolo mediterraneo e in questa parte del mondo il rumore è apprezzato, lo si ritiene d'istinto parte essenziale dell'esistenza. Il silenzio al contrario è scambiato per rassegnazione, mancanza di vitalità, stato di mortificazione. Il caso forse più fastidioso è lo squillare ininterrotto dei cellulari in treno. Da Roma in giù, ma spesso anche in su, la maggior parte dei ristoranti sono fabbriche di rumore tra l'acciottolio delle stoviglie e le urla degli avventori. Poi enumero a caso: apparecchi Tv ad alto volume con le finestre aperte d'estate, motorini con marmitta sfondata, concerti di clacson... Ma l'insopportabilità del silenzio è soprattutto dimostrata dai funerali. La voga abbastanza recente dell'applauso alla salma dimostra la generale incapacità di condividere un'emozione forte in un raccolto silenzio. Ci sarebbero poi le grida scomposte, gli improperi (sottolineati dai volti paonazzi) dei cosiddetti "dibattiti" televisivi, in realtà risse. Ma per questi basta il titolo del dramma shakesperiano: "Molto rumore per nulla".

11 set 2010

La libertà non è (solo) uno spinello

Cosa direbbe oggi Marx ai giovani? Credo che sarebbe molto stupito di una cosa: i giovani pensano di essere di "controcultura", di elaborare un sapere critico, oppositivo rispetto al capitalismo... In realtà a questi giovani, che pensano che la libertà stia nello spinello - e non nel curarsi che ci sono popoli oppressi, che il capitalismo è sempre più imperialistico e genera sfruttamento e schiavitù - Marx direbbe: state attenti, voi pensate di essere anticapitalisti ma in realtà siete ultracapitalisti, nel senso che è il capitalismo stesso che vuole una iper-liberalizzazione di tutto: droghe, sesso, alcol e così via. Quindi direi ai giovani: attenzione a non perdere quella che Lukács definiva "la passione durevole dell'anticapitalismo".

(Diego Fusaro, autore del libro "Bentornato Marx!")


"Possiamo essere liberi se tutti lo sono"
(G.W.F. Hegel)


9 set 2010

Rendiamo grazie alla Teiera

«Se io sostenessi che tra la Terra e Marte c'è una teiera di porcellana (troppo piccola per essere rivelata dai telescopi), nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi. Se l'esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità, ed instillata nelle menti dei bambini a scuola, l'esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità»

(Bertrand Russell)


Un sorso di cicuta non si nega a nessuno

Se mi condannerete a morte non potrete
trovare facilmente un altro, quale sono io,
che sia stato posto dal dio a fianco della Città,
come al fianco di un grande cavallo di razza
(ma proprio pr la grandezza un po' pigro e che
ha bisogno di venir pungolato da un tafano).

[...]

Come uno che, pungolandovi, perseguendovi
e rimproverandovi ad uno ad uno, non smetta mai
di starvi addosso durante tutto il giorno, dappertutto.
Un altro simile a me non sarà facile che nasca, o cittadini.
Perciò, se mi date retta, dovete assolvermi. Ma voi forse,
incolleriti con me, come quelli che vengono svegliati
mentre stanno dormendo, datomi un grosso colpo,
mi condannerete facilmente a morte e poi continuerete
a dormire per tutto il resto della vita.

(Platone, Apologia di Socrate, 30e-31a)