2 dic 2010

Dedicato a chi salva il mondo e non sa di farlo



I giusti

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud
giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina
che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono
le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare
un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

Jorge Luis Borges

7 ott 2010

La dichiarazione d'amore di un filosofo vale doppio

Una volta hanno chiesto all'ormai anziano filosofo André Gorz quali fossero state, tirando le somme di una vita, le sue maggiori influenze. Questa la risposta:

«C'è stato Sartre, certo, c'è stato Illich. Ma le influenze più importanti non sono necessariamente quelle delle persone importanti. Dal 1947 a oggi, l'influenza più forte e costante è stata quella di "Dorine senza la quale nulla sarebbe", la mia compagna, che mi ha rivelato che non era impossibile amare, essere amato, sentire, vivere, avere fiducia in se stessi. Siamo cresciuti ed evoluti l'uno grazie all'altra, l'uno per l'altra. Senza di lei non sarei probabilmente riuscito ad accettarmi. Senza Sartre, probabilmente non avrei trovato gli strumenti per pensare e superare quel che la mia famiglia e la storia mi avevano fatto. Dacchè ho scoperto l' "Essere e il nulla" , ho avuto il sentore che quel che Sartre diceva della condizione ontologica dell'uomo corrispondesse alla mia esperienza. Fin dalla prima infanzia avevo avuto esperienza dell'angoscia, della certezza di un'esistenza senza scopo, di non corrispondere a ciò che gli altri si aspettavano da me, di non potermi far capire da loro. L'esperienza, insomma, della contingenza, dell'ingiustificabilità, della solitudine di ogni soggetto.»



A pensarci bene, una delle più belle dichiarazioni d'amore di sempre.

27 set 2010

Beata la bestia che non ha memoria...

«Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò dipende dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.


Ma egli si meravigliò anche si se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. È un miracolo: l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. Quindi l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione; non è in grado di fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per tutto come ciò che è, quindi non può essere nient’altro che sincero.
L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello, che egli può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti con i suoi simili rinnega fin troppo volentieri, per suscitare la loro invidia.
Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge che pascola o, in più familiare vicinanza, il bambino che non ha ancora nessun passato da rinnegare e che giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro. E tuttavia il suo gioco deve essere disturbato: anche troppo presto egli si risveglia dal suo oblio. Allora impara a intendere la parola “c’era”, quella parola d’ordine con cui lotta, sofferenze e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua esistenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa. [...] felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico.
Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri.»

(F.W. Nietzsche, La felicità dell'oblio)

17 set 2010

Elogio del silenzio

Anche quest'estate è caratterizzata da una miscela infernale di rumori di giorno e di notte nelle città. Non esiste requie per chi è raggiunto dai rumori più diversi. I rumori rivelano la speciale capacità di ignorare i diritti degli altri e di affermare il proprio primato con sonorità d'ogni tipo o alzando la voce nelle conversazioni e nei dibattiti. Questa nuova barbarie dimostra la frantumazione del vincolo sociale, l'incapacità d'ascolto del nostro prossimo, una tragica forma di insopportabilità del silenzio. Sta emergendo una centralità della parola che elimina gli spazi della contemplazione e della meditazione.
Il silenzio è un ornamento della parola, la nutre di significati e di sfumature. A teatro, nella musica e nella vita le pause di silenzio danno valore, forza e respiro alle parole e ai suoni. Sembra quasi si tema il silenzio, considerato rappresentazione del vuoto, della negazione della vita. Si dedica tempo infinito al cellulare per comunicare il nulla, si usa sempre più raramente la parola per un sincero dialogo con il prossimo. Eppure non esiste una vera comunicazione senza il contrappunto ed il respiro assicurati dalle pause, dal silenzio. Le parole, come la musica, necessitano di pause come di un respiro vitale.



Queste erano le parole che un lettore di Repubblica scrive ad Augias, il quale risponde:

Noi siamo un popolo mediterraneo e in questa parte del mondo il rumore è apprezzato, lo si ritiene d'istinto parte essenziale dell'esistenza. Il silenzio al contrario è scambiato per rassegnazione, mancanza di vitalità, stato di mortificazione. Il caso forse più fastidioso è lo squillare ininterrotto dei cellulari in treno. Da Roma in giù, ma spesso anche in su, la maggior parte dei ristoranti sono fabbriche di rumore tra l'acciottolio delle stoviglie e le urla degli avventori. Poi enumero a caso: apparecchi Tv ad alto volume con le finestre aperte d'estate, motorini con marmitta sfondata, concerti di clacson... Ma l'insopportabilità del silenzio è soprattutto dimostrata dai funerali. La voga abbastanza recente dell'applauso alla salma dimostra la generale incapacità di condividere un'emozione forte in un raccolto silenzio. Ci sarebbero poi le grida scomposte, gli improperi (sottolineati dai volti paonazzi) dei cosiddetti "dibattiti" televisivi, in realtà risse. Ma per questi basta il titolo del dramma shakesperiano: "Molto rumore per nulla".

11 set 2010

La libertà non è (solo) uno spinello

Cosa direbbe oggi Marx ai giovani? Credo che sarebbe molto stupito di una cosa: i giovani pensano di essere di "controcultura", di elaborare un sapere critico, oppositivo rispetto al capitalismo... In realtà a questi giovani, che pensano che la libertà stia nello spinello - e non nel curarsi che ci sono popoli oppressi, che il capitalismo è sempre più imperialistico e genera sfruttamento e schiavitù - Marx direbbe: state attenti, voi pensate di essere anticapitalisti ma in realtà siete ultracapitalisti, nel senso che è il capitalismo stesso che vuole una iper-liberalizzazione di tutto: droghe, sesso, alcol e così via. Quindi direi ai giovani: attenzione a non perdere quella che Lukács definiva "la passione durevole dell'anticapitalismo".

(Diego Fusaro, autore del libro "Bentornato Marx!")


"Possiamo essere liberi se tutti lo sono"
(G.W.F. Hegel)


9 set 2010

Rendiamo grazie alla Teiera

«Se io sostenessi che tra la Terra e Marte c'è una teiera di porcellana (troppo piccola per essere rivelata dai telescopi), nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi. Se l'esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità, ed instillata nelle menti dei bambini a scuola, l'esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità»

(Bertrand Russell)


Un sorso di cicuta non si nega a nessuno

Se mi condannerete a morte non potrete
trovare facilmente un altro, quale sono io,
che sia stato posto dal dio a fianco della Città,
come al fianco di un grande cavallo di razza
(ma proprio pr la grandezza un po' pigro e che
ha bisogno di venir pungolato da un tafano).

[...]

Come uno che, pungolandovi, perseguendovi
e rimproverandovi ad uno ad uno, non smetta mai
di starvi addosso durante tutto il giorno, dappertutto.
Un altro simile a me non sarà facile che nasca, o cittadini.
Perciò, se mi date retta, dovete assolvermi. Ma voi forse,
incolleriti con me, come quelli che vengono svegliati
mentre stanno dormendo, datomi un grosso colpo,
mi condannerete facilmente a morte e poi continuerete
a dormire per tutto il resto della vita.

(Platone, Apologia di Socrate, 30e-31a)


Sacrifici ritmici


« Certi buoni scrittori cambiano il ritmo di molti periodi unicamente perchè non riconoscono ai comuni lettori la capacità di comprendere il ritmo che il periodo seguiva nella sua prima formulazione: perciò essi alleviano loro il compito, dando la preferenza a ritmi più noti. Questa premura verso l'impotenza ritmica degli odierni lettori ha già strappato più di un sospiro, poichè già molto gli è stato sacrificato... Che non succeda lo stesso ai buoni musicisti? »

(F.W. Nietzsche, "Sacrifici ritmici" - aforisma 198, Umano troppo umano, vol. I)

6 set 2010

La vita al contrario


La vita dovrebbe essere vissuta al contrario.
Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così tricchete tracchete il trauma è bello che superato. Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è
andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono. Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d'oro. Lavori quarant'anni finchè non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finchè non sei bebè. Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo.
(Woody Allen)



5 ago 2010

La mia posizione sulla questione Dio.

Approfitto della risposta che ho dato a un utente incontrato su un blog filosofico, per esprimere la mia posizione su Dio (o almeno su alcuni aspetti della questione). Copioincollo il pensiero di quell'utente, sul quale ho riflettuto un po' (mai abbastanza) e a cui ho voluto rispondere:

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"Il mio cammino è stato opposto perchè ebbi una educazione religiosa; il mio dissociarmi dalla fede è avvenuto come fatto evolutivo di un ragionare continuo; per cui ora credo in Dio perchè penso che sia la causa prima di un effetto che percepisco con i miei sensi.
Certamente non ho la fotografia del momento dell' *origine* di tutto ciò che ci circonda, ne dell' Autore di questo, ma la mia logica si rifiuta di accettare che il caso sia l' artefice di *tutta questa meraviglia*, che manifesta una raffinatissima intelligenza."

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Questo è il suo pensiero. Per rispondere e rendere la cosa più agile, divido il suo intervento in 3 punti:

1) “Il mio cammino è stato opposto perchè ebbi una educazione religiosa; il mio dissociarmi dalla fede è avvenuto come fatto evolutivo di un ragionare continuo”...

Benissimo, la strada è quella giusta. Anch'io, dopo dieci anni di scoutismo cattolico, ho intrapreso senza rancore la strada della filosofia, che mi ha serenamente condotto ad una posizione ateistica.

2) … per cui ora credo in Dio perchè penso che sia la causa prima di un effetto che percepisco con i miei sensi.

Ecco il problema: la causa prima. Torniamo così alle dimostrazioni e ai postulati medievali, che tentavano la dimostrazione di Dio con supponenti ragionamenti “logici”! Non ci siamo... Ovvero: supporre la causa prima è cosa buona e giusta, ma a patto che il nostro approccio sia:

  • moralmente neutro: il Creatore non è “buono”, come credevano gli pseudo-filosofi medievali e tutti i padri della Chiesa: i concetti di “buono” e “cattivo”, rispetto alla Creazione, non hanno alcun senso: sono “Umani, troppo umani”, direbbe Nietzsche;
  • scientificamente umile, cioè probabilistico, possibilistico e non-dogmatico: pronto cioè a subire correzioni e smentite. Se anche credessi che Dio è il “big bang”, ti troveresti dinanzi a fior di teorie (valide QUANTO le altre teorie cosmogoniche) che ipotizzano il nostro universo come un “sottouniverso” di universi più grossi, potenzialmente infiniti, in un'infinita e potenzialmente ETERNA catena evolutiva (che noi, microbi nell'universo, non riusciamo neanche a supporre e immaginare). Quindi il benedetto “dito indice” che dà origine all'Universo non è assolutamente una certezza, ma solo un disegno che si trova nella Cappella Sistina. Figurati se poi è stato un signore con la barba bianca e la voce tonante a dare origine a tutto... (non sto sfottendo te, vado solo punzecchiando la “religiosità” media della popolazione mondiale, che davvero crede ancora a simili baggianate).

3) Certamente non ho la fotografia del momento dell' *origine* di tutto ciò che ci circonda, ne dell' Autore di questo, ma la mia logica si rifiuta di accettare che il caso sia l' artefice di *tutta questa meraviglia*





















Parli di "Meraviglia", bene. In Triennale mi sono laureato con una tesi sul panteista Spinoza, avversario implacabile della religione superstiziosa, ma non definibile come “ateo” in senso stretto. Nell'Etica egli dà la sua definizione di Dio e di “amore” divino (qualcosa di vicino alla meraviglia di cui parli). Questo sentimento di “lettura tra le righe” del Creato credo di averlo ben espresso in un mio breve elaborato sull'argomento. Ti riporto la parte saliente, dando voce a Russell e Einstein a proposito di questo sentimento di piacevole “constatazione” del Tutto, cui anche noi apparteniamo:

«Benché sia vero che uno degli obiettivi della scienza è scoprire regole che permettano di associare tra loro i fatti e prevederli, questo non è il suo solo scopo. Essa cerca altresì di ridurre i nessi scoperti al minor possibile di elementi concettuali indipendenti l'uno dall'altro. È in tale sforzo di unificazione razionale del multiforme che essa incontra i maggiori successi […] Chi abbia conosciuto l'emozionante esperienza dei processi andati a buon fine in questo ambito, è mosso da profonda reverenza per la razionalità evidenziata nell'esistenza. Attraverso la conoscenza [l'uomo] consegue un'emancipazione di vasta portata dai ceppi delle speranze e dei desideri personali, e con ciò perviene a quell'atteggiamento di umiltà mentale verso la grandezza della ragione incarnata nell'esistenza». (Einstein)


Gli echi spinoziani sono incredibilmente evidenti: un amore pieno, umile e reverente è vivo sulla pelle di uno dei maggiori scienziati di sempre. Altrove Einstein parlerà anche del «piacere della bellezza della creazione artistica e delle concatenazioni logiche del pensiero». Ancora una volta troviamo accostate: la causalità (riconoscibile nel creato) ed il sentimento; la conoscenza e l'emozione.
Un altro uomo di scienza (comunemente ritenuto filosofo), Bertrand Russell, rafforza queste nostre considerazioni:

«l'amore intellettuale di Dio è una fusione di pensiero e di sentimento: credo si possa dire che consista nel vero pensiero misto alla gioia d'apprendere la verità, [gioia che] è intesa come qualcosa di superiore al piacere». (Russell)














Non si vuole qui insinuare che la via alla “beatitudine” sia appannaggio unico degli scienziati (o dei più “sensibili” tra loro). È vero però che è interessante come l'approccio scientifico – per definizione scevro da ogni emotività nella sua indagine – contempli il sentimento dell'amor dei intellectualis descritto nell'Etica di Spinoza. E quando questo non accade, ciò lo si deve al fatto che si è rimasti al livello della ragione, ovvero manca ancora quel momento conoscitivo che, pur non aggiungendo nulla alla conoscenza, consiste in un atto di intellezione il quale genera profondo coinvolgimento emotivo.

Per capire il 3° genere di conoscenza in Spinoza, credo ti vada bene qualsiasi manualistica, se già non lo conosci.
Soffermiamoci ancora su Spinoza, perchè ci serve il suo concetto di *antropomorfismo* (ma poteva andar bene anche Feuerbach per i nostri scopi): nell'Appendice alla Prima parte dell' “Etica” Spinoza nota che se Dio è l'ente massimamente perfetto (per definizione), allora è assurdo che sia subordinato a un “fine” durante la Creazione.

Il filosofo ribadisce una profonda avversione nei confronti del *pregiudizio finalistico*, criticando la concezione classica secondo cui Dio agirebbe, al pari degli uomini, secondo fini. Spinoza espone lunghe argomentazioni logiche, servendosi talvolta di parole accese, per sostenere fermamente l'inaccettabilità dell'idea di un Dio mosso da (o tendente a) finalità e obiettivi. Il finalismo, tratto tipicamente umano, viene attribuito a Dio, del quale però stentiamo a riconoscere l’essenza più autentica.

La *Creazione*, per Spinoza, non è un atto indifferente (cioè il 'creato' non avrebbe potuto essere diverso da come poi è stato fatto): la creazione è un atto necessario, massimamente compiuto, perfetto. In tal senso allora, dobbiamo dedurne - Spinoza praticamente lo afferma - che Dio dobbiamo chiamarlo “natura”.
E che c'è di più perfetto della natura? Si (ri)genera, si espande, si adatta, si avvicenda... La prova la abbiamo sotto gli occhi in ogni momento. Ma è una macchina, un meccanismo! E dietro di esso c'è solo un "orologiaio cieco"! Anzi, è più di un orologio... Un orologio sarebbe "fatto" da qualcuno: allora diremo che è piuttosto uno splendido e complesso meccanismo ad orologio, dove è vero che nulla avviene per caso (tralasciamo alcune scoperte scientifiche che sembrano reintrodurre il caso nel mondo fisico). Non per questo però significa che ci sia un fine, un motivo, un compimento, un giudizio, un percorso finalizzato.

Dovremmo essere capaci di stare di fronte all'assurdo e, anzichè elaborare soluzioni e consolazioni, dovremmo essere capaci - una volta per tutte! - di contemplare la meraviglia del nulla, anzichè lasciare che il "niente di senso" ci assorba nel burrone della disperazione. Ma questo esige una maturità dell'umanità. E noi siamo ancora sì e no degli adolescenti pieni di brufoli, pieni di complessi interiori senza senso... Stesi sul letto, ad ascoltare Marco Masini, chiedendoci perchè ci sentiamo così soli e sperduti.

Parlavamo della natura: essa certamente è qualcosa di più perfetto del Dio "antropomorfico" della tradizione, il quale avrebbe un "carattere" (irascibile, Vecchio Testamento; compassionevole - Nuovo Testamento!). Idea ridicola, palesemente fasulla e risibile a mio avviso. Anche questa una cosa umana, troppo umana...


Il problema, comunque, è quando guardiamo troppo in là. È questo il punto cruciale che mi preme sottolineare. Userò un'immagine per farmi capire:

  • io osservo, chino sul terreno, un fiore nella sua perfezione (sono ancora nella causalità stretta, non lo sto ancora “ammirando”, nè ne sto ancora deducendo nulla). Colgo dei nessi causali a livello botanico-biologico (la perfezione dello stelo; la funzionalità microscopica di ogni particella; ecc.)
  • sollevo lo sguardo orizzontalmente sul prato, ovvero ammiro la regolarità del Tutto, l'armonia e le ricorrenze implacabili e rassicuranti del Creato (provo la “beatitudo” di cui parla Spinoza). Bene. STOP!
---> Non devo alzare ANCORA più su lo sguardo, sennò finirò per vedere ciò che non c'è!

Guccini è un grande poeta, ma non mi trova d'accordo quando canta:

“E voi materialisti col vostro chiodo fisso,
che Dio è morto e l'uomo è solo in questo abisso;
la verità cercate per terra - da maiali -
tenetevi le ghiande e lasciatemi le ali”.

Beh, questo verso, splendido poeticamente, non lo condivido Lo sguardo deve restare a terra, se siamo onesti e in ricerca autentica. Se stiamo parlando (quanto più possibile) di verità e realtà. Non dobbiamo andare ad ipostatizzare nulla, nè guardare ad un “altrove” (fosse un ultramondo di stampo cattolico, platonico o chissà che...) o ad un "qualcun altro", orologiaio del mondo.

È tutto quaggiù, e ce n'è abbastanza.

Le ipotesi trascendentali sono un diletto della mente
... necessario, si badi bene!, ma pur sempre un diletto. Un espediente utile, si badi bene!, ma pur sempre un espediente.



Questo lo riconosce anche Nietzsche, il quale vorrebbe vedere negli uomini il coraggio di agire con “acutezza psicologica” l'inverso dell'abbandono cieco ed illusorio alle verità trascendentali ed irriflesse). Eppure egli stesso sa che la “fede cieca”, la speranza religiosa, la fuga dalle nostre angosce e fragilità (di esseri finiti e temporanei), sono espedienti che, complessivamente, rendono l'uomo più felice di quanto non lo faccia uno stoico atteggiamento implacabile, cinico e acuto. Aggiungo io: anche da adulti, restiamo dei poppanti bisognosi (Freud infatti nella religione ci vede poco più che una psicosi di massa, non a caso: tutti bimbi riverenti verso il Grande Padre castigatore).

Molti credenti, arrivati a questo punto, mi parleranno dell'incontrovertibile “forza” di questo spossante sentimento religioso di trasporto, amore e fascinazione verso il Tutto, che non può che far intravedere un Disegno, una Spinta, un Autore immensi e immensamente buoni...

Ma, usando ancora le parole di Nietzsche, io ipotizzo piuttosto che la nostra mente – che possiede il logos e (purtroppo e per fortuna) molte altre capacità – rincorre sempre la nostra finitezza e le nostre angosce. E costruisce sentimenti forti i quali, dopo numerose ed epocali stratificazioni culturali e accettazioni abitudinarie ed irriflesse, finisce per essere inspiegabile e trascinante.

Ma non è immediato e incontrovertibile!

Mi spiego: l'immenso amore per il tutto; la sensazione di sentirsi accuditi; il fatto di non riuscire a pensare che non c'è qualcos'ALTRO... eccetera, non dimostrano proprio nulla. Come suggerisce ancora Nietzsche:

«si formano rapide, abituali associazioni di sentimenti e di pensieri, che da ultimo, quando si susseguono con la rapidità del lampo, non vengono sentite nemmeno più come fatti complessi, bensì come unità. In questo senso si parla del sentimento morale e del sentimento religioso, quasi che siano pure unità: in verità sono fiumi con cento scaturigini e affluenti.»

In buona sostanza, il Padre del Sospetto qui lavora di fino e ci fa chiedere: sei sicuro che tu credente (e con “tu” intendo anche il “tu” dell'umanità, nel suo succedersi ed evolversi/involversi culturale e storico) non sia poi intriso, per tua stessa natura biologica, di:

  • convinzioni ereditate...
  • paure ataviche...
  • traumi esistenziali... (spiegabili tranquillamente come eredità del macro-trauma del distacco dall'utero: vedi Freud, Lacan, ecc.)
  • condizione psicologica di instabilità... (dovuta alla tua condizione di essere finito, vulnerabile, terrorizzato dalla morte: vedi Freud, ecc.)

Tutte condizioni che si CONDENSANO (rileggi il passao di Nietzsche!) in un un unico “frullato” che è il sentimento religioso (e/o morale), che a noi sembra tanto immanente ed evidente (che per alcuni è la PROVA decisiva dell'esistenza di Qualcosa di superiore).

Eh già.. Sì, proprio quello stesso “sentimento” che ha commosso SINCERAMENTE anche me stesso in alcune particolari condizioni: quand'ero di fronte a un prete iun po' n gamba.. ed ero fisicamente.. ed affascinato dalle fiamme accoglienti del fuoco scout di bivacco..

O la stessa accozzaglia di fattori (confusi, faticosamente individuabili!) che commuove mia nonna e la mia vicina di casa quando vanno in Chiesa.
Tutti fattori spiegabili... con numerose difficoltà, ma spiegabili psicoanaliticamente, sociologicamente, causalmente: scientificamente, insomma. In fondo, come nota acutamente M. Onfray:

«Dio nasce dal rigore, dalla rigidità e immobilità dei cadaveri dei membri della tribù».

E da quel momento in poi, colto dal terrore, l'uomo ha iniziato a mettere in piedi totem, invocazioni, divinità, rituali...
La forza che queste credenze ed abitudini hanno oggi, si deve alla stratificazione temporale. Tanto che adesso, dopo secoli, è chiaro che sembri a tal punto strabiliante e incontrovertibile la potenza della manifestazione divina nell'animo umano: per forza, ha avuto secoli di "palestra" utile al proprio rafforzarsi. Il mito, del resto, non morirà mai: nasce con l'uomo. Infatti credo anch'io che:



«l'ultimo Dio sparirà con l'ultimo uomo. E con lui spariranno il timore, la paura, l'angoscia, le macchine per creare divinità. Il terrore di fronte al nulla, l'incapacità di considerare la morte come un processo naturale, inevitabile, col quale è necessario venire a patti. [...] Come pure la paura per la mancanza di senso e l'assurdità, cioè l'addomesticamento del “nulla”»
(M. Onfray)

L'obiezione finale poi la conosco a memoria oramai: il credente mi dirà:

“Sì, ok. Ma continui a dare un nome scientifico e logico (“trauma infantile”; “angoscia primordiale”; ecc.) a qualcosa che non puoi spiegare con le parole miserabili di te, uomo terreno. Tu dai miseramente un nome ristretto a sensazioni e sentimenti immanenti, indescrivibili, indicibili, incontrovertibili.”

Ma come sostiene Dawkins:

quando si comincia a predicare l'esistenza di qualcosa che è indicibile, intangibile e inguardabile, allora si è fatto il passo vincente: non si può negare o dimostrare che non esiste qualcosa che tu affermi essere senza corpo, senza forma, senza luogo...

Per ora chiudo qui. Gli spunti e le obiezioni, ovviamente, sono infiniti..

Luca

7 mag 2010

Filosofia, etica e azione politica...

Il tema è infinito (lo so dalla mole di discussioni labirintiche sulla questione, che spesso ho intrattenuto con amici sia credenti, che nichilisti e cinici, che impegnati politicamente).

Tuttavia mi ha fatto riflettere questo brano di Martha Nussbaum, su cui sorrideranno compiaciute molte persone "realistiche" e diffidenti verso quella "ascesi" di stampo filosofico, che dall'alto del suo "distacco" non pensa alla semplice pagnotta da portare a casa.

"Nietzsche crede nella profonda unità tra la nostra natura fisica e quella spirituale, sostenendo che l'essere umano è un animale, e che abita senza residui il mondo naturale. E così appare particolarmente strano che, nella sua critica della compassione, Nietzsche si rifiuti di ammettere che gli esseri umani hanno bisogno dei beni esteriori per poter vivere"

Ma soprattutto:

"In tutto il suo lodare, alquanto astratto e romantico, la solitudine e l'ascetismo, non troviamo traccia della semplice verità che una persona affamata non può pensare bene, che chi non ha un riparo, le fondamentali cure mediche, e gli altri mezzi elementari per la vita, non è probabile divenga un filosofo o un artista che esprime se stesso, non importa quali siano i suoi talenti innati."

Nietzsche fa riflettere molto spesso, ed è uno scrittore della madonna. Ha guardato anche nel labirinto perverso della mente umana (e della società). Però a volte parla dall'alto di una posizione alquanto incompleta e "distaccata".
Numerose volte mi ha irritato dialogare con persone che parlando di "distacco dalle ansie di tutti i giorni", che ostentano un "menefreghismo" spinto di stampo nichilista. Un'irritazione, la mia, verso chi critica il vano affanno di chi difende l'acqua pubblica, l'istruzione pubblica, la sanità pubblica, i diritti sindacali, le politiche di welfare, il lavoro a tempo indeterminato; di chi si impegna contro l'emarginazione sociale, contro la miseria sociale in generale insomma..
Nella loro prospettiva, difendono una posizione pretesa come assoluta (nulla ha valore, solo i cazzi miei mi interessano), ma dimenticano il fatto che, se hai la possibilità di sperimentare e vivere l'arte; se puoi fare quello che ti pare; se puoi vivere tranquillamente, cullandoti nel tuo nichilismo post-moderno.. lo devi alla democrazia, al benessere (fittizio, lo so, ma tuttora comunque presente) preservato (per quanto ancora?) dall'attenzione sociale di alcuni. Se potremo speculare liberamente lo dovremo alla difesa dell'istruzione pubblica, per esempio. Se potremo avere il tempo di "fruire allegramente" delle arti più disparate lo dovremo al fatto che non dobbiamo lavorare 12 ore al giorno o emigrare ogni 2 mesi; al fatto che non dobbiamo fare la carità per poterci operare in ospedale. Eccetera.

E' come uno che dice: mi godo il panorama dal pontile, tanto ho avuto la fortuna di nascere Capitano. Dimenticando che sono i marinai a preparare il rancio. Dimenticando che ti puoi godere il panorama perchè stai navigando in esplorazione e, al momento, fortunatamente non sei in guerra e la tua imbarcazione può veleggiare tranquilla.

Che ne pensate?
Comment, please!

24 feb 2010

Vivere il senso del 'mistero'. Differenza tra religione e religiosità.

Quest'altro passaggio di Bobbio ben esprime ciò che sostengo da tempo, ovvero un punto di contatto tra credenti e non credenti: il senso del mistero e l'umiltà che impone tanto al credente, quanto all'ateo e al credente.

«Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità.



Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione – perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio – è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi […] Ma quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata – e umiliata. So di non sapere. Questo io chiamo “la mia religiosità”.



[…]Io non credo […] Anch’io sono cresciuto, come quasi tutti in questo paese, in una famiglia cattolica, e ho avuto una formazione cattolica. Preghiere, preghiere, preghiere… Le ho talmente ripetute (sia in latino, come si usava una volta, sia in italiano) che le ho quasi dimenticate. Ho fatto la prima comunione, e anche un matrimonio religioso (anche mia moglie però non è credente).
E alla domanda su quando e perché ho perduto la fede non è facile rispondere. Forse verso i vent’anni. Certo, lo studio della filosofia, anche. Tutte queste domande sui problemi di metafisica, diciamo così, e il rendersi conto che le risposte della fede implicavano credenze difficili da accettare.



La credenza nei miracoli, ad esempio, per un razionalista è la cosa più assurda. Altrettanto è il dover credere in ciò che ad ogni essere di ragione appare come mito, cominciando dal peccato originale […] Ho continuato a riflettere sui grandi temi dell’esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha mai convinto […] La scienza qualche progresso lo ha fatto. La fede non risponde alle domande, può solo evitarle. Questo è il suo vantaggio e la sua debolezza, almeno di fronte alle persone che ritengono che l’unico lume legittimo – per quanto piccolo – con cui possiamo dire sì o no, vero o falso, è la ragione. E l’esperienza. La ragione e l’esperienza sono i due lumi dell’uomo così come è. La religione è una creazione umana»

(«Religione e religiosità», testimonianza apparsa su MicroMega n. 2/2000, pp. 7-10).

Il coraggio di vivere il dubbio senza ricorrere alla credenza.

«… Di fronte ai grandi problemi mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.
Ho sempre avuto un grande rispetto per i credenti, ma non sono un uomo di fede. La fede, quando non è un dono, è un’abitudine; quando non è né un dono né un’abitudine, deriva da una forte volontà di credere. Ma la volontà comincia dove la ragione finisce: io mi sono sinora arrestato prima. Mi è anche completamente estranea la fede nella ragione. Non ho mai avuto la tentazione di sostituire la Dea Ragione al Dio dei credenti. Per me, la nostra ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Com’è nato l’universo? Come finirà? Che parte ha in esso l’uomo, questo essere che, a differenza di tutti gli altri esseri viventi che conosciamo, non solo è nel mondo ma s’interroga sul suo posto nel mondo, o, per usare il termine classico di tutta la nostra tradizione, sul suo destino che è per essenza “cieco”? Che è immerso nel male dell’universo, o almeno in quello che secondo il suo giudizio è male, e si pone la domanda, da quando ha cominciato a riflettere sulle cause e sui fini: “Perché il male?”, una domanda cui non è mai riuscito a dare una risposta convincente? Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che non vi è riuscita la scienza, e qui intendo per “scienza” il complesso delle conoscenze acquisite con l’uso della nostra intelligenza. Ma vi sono riuscite le religioni? Parlo di risposte convincenti, di cui questa stessa intelligenza si possa appagare, non di risposte consolatorie e quindi illusorie, che appagano l’animo di coloro che vogliono, disperatamente vogliono, per l’enormità e l’insopportabilità del male di cui soffrono, essere consolati. Al contrario del lumicino della ragione, la fede illumina, ma spesso, per troppo illuminare, acceca. Donde nascono, se non da questo accecamento, gli aspetti perversi della religione? L’intolleranza, la coazione a credere, la persecuzione dei non credenti, lo spirito di crociata? Non riprenderei questo vecchio argomento, tacendo il quale peraltro non si comprende la battaglia dei “lumi” così caratteristica del pensiero moderno, se non fosse che questo stesso argomento viene continuamente usato con la stessa partigianeria per imputare al processo di secolarizzazione tutte le perversioni del nostro secolo, come se l’età più cruenta prima delle due guerre mondiali non fosse stata quella delle guerre di religione».

(Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, pp. 8, 187-188).